C’era una celebre canzone di Gino Paoli rivisitata da molti artisti ed entrata a gran forza nell’immaginario comune dal seguente titolo “Il cielo in una stanza”, ora ad un anno di distanza tra lockdown, pandemia, quarantena, semilibertà o libertà vigilata, mi sento di dire che non ci basta immaginare il cielo in una stanza, abbiamo bisogno di crearci un vero e proprio mondo.
Ebbene sì, proprio noi che siamo cresciuti con il mantra del cosmopolitismo addosso, dove ci sentiamo più cittadini del mondo che di un solo paese, mettiamo barriere su barriere, restringendo sempre di più il nostro campo d’azione, riducendolo ad un minuscolo spazio vitale.
Ne ho sentite delle belle, soprattutto dalla vecchia generazione. “Vi si chiede di stare a casa, mica di andare in guerra, come è successo a noi”. Come se solo quello che è successo in passato, nonostante il suo terrore e le sue limitazioni, possa davvero toccare. Ma quello che sta succedendo adesso no, è passabile.
Non credo, cari amici, non può passare questo messaggio. Siamo in un’epoca che fa da spartiacque fra quello che era e quello che sarà e, credetemi, esponenti della cara vecchia generazione, che non sarete voi a creare quel futuro, né avete i pieni poteri per poterlo fare perché ognuno è figlio della sua epoca.
E noi abbiamo imparato a studiare a distanza attraverso uno schermo, a dividere con la famiglia spazi, tempi e scocciature, a lavorare da casa, mentre facciamo andare l’ennesima lavatrice di pigiami, a fare sport con YouTube, a videochiamare amici, a fare aperitivi virtuali, a fingersi chef solo per premiarci dopo aver lavorato 10 ore a casa e accorgersi che… sempre a casa rimani!
Un anno. Ma ci credete che sia passato un anno?
Un anno in cui abbiamo imparato a chiudere il mondo in una stanza, in cui ci siamo aggrappati alla parola “distanza” come fosse la nostra ancora di salvezza.
“Mantenere la distanza”
“Didattica a distanza”
“Lavoro a distanza”
Persino il cuore lo abbiamo messo a distanza di sicurezza, forse per non guardare le brutture che sono successe, forse per cercare quel barlume di speranza che ci fa dire “ma sì, prima o poi finirà sta pandemia” o forse perché alla fine ci si abitua a tutto, persino a questo.
Un anno che compriamo solo pigiami e ciabatte, in cui abbiamo imparato a fare la pizza, il pane, la pastiera napoletana e pure qualche piatto esotico in casa.
Un anno in cui “ma si può uscire dalla regione?”, “ma tu di che colore sei?”, “posso fare l’asporto o la consegna?”.
Un anno in cui abbiamo centellinato l’affetto, dimenticando il calore di un abbraccio, avendo paura del prossimo più di quanto ne avessimo prima, perché adesso “chi me lo assicura che quello lì, proprio lui eh, non ha il Covid-19?”.
Un anno in cui abbiamo dimenticato cosa voglia dire assistere ad un concerto. Ma ci pensate a stare tuti accalcati e urlare e sudare e non pensare ad altro se non a quel momento in cui il gruppo sul palco canta la sua canzone preferita?
Un anno in cui uscire è diventato sfiancante. “Posso andare lì?Posso fare quello? Posso vederla quella persona?”.
Un anno di insicurezze, dove navighiamo a vista in cerca di un miraggio. Sballottolati a destra e manca, senza una guida sicura che ci dica “ehi, andiamo da questa parte, è la strada giusta”.
Un anno in cui si è dimenticato cosa vuole dire esser un/una ragazzo/a e avere quel bisogno spasmodico di uscire, fare, conoscere, viaggiare, imparare, inciampare, guarire.
“Guarire da che?” mi direte.
Sicuramente non dal Covid.
Un anno in cui abbiamo capito che per sopravvivere, saremo disposti a tutto. A chiudere porte, frontiere, ristoranti, cinema…a chiudere il cuore e la mente.
Quindi cosa ci resta?
La speranza nebulosa che tutto finisca, che si trovi la soluzione a tutto, che il Covid diventi acqua passata come un tormentone estivo dal quale liberarsi, come la signora di Mondello che urla al mondo che “Non ce n’è Coviddiiii”.
Però facciamoci una promessa, se quando noi diventeremo la vecchia generazione i nostri posteri dovranno affrontare un periodo così doloroso, incerto e delicato, non dimentichiamoci mai che abbiamo rinchiuso il nostro mondo in una stanza. Che ci siamo ritrovati a guardare il soffitto speranzosi di rivedere delle stelle brillare. Non dimentichiamoci la sofferenza, la paura, il distanziamento. Non dimentichiamo come ci siamo sentiti.
Perché solo così potremmo capire che come ogni persona vive la sua battaglia, anche ogni generazione ha la sua guerra da vincere.
L’importante è che il mondo continui a girare, anche se noi, per sopravvivere, lo abbiamo chiuso in una stanza.
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