Controllo le nuove uscite su Netflix, diventata l’attività più divertente e desiderabile negli ultimi due anni di pandemia, e vedo con piacere che c’è la serie di Zerocalcare “Strappare lungo i bordi”. Non sono una fan sfegatata, ma ho sempre apprezzato i suoi fumetti, la parlata romanesca e il punto di vista fuori dagli schemi.
Mi preparo a passare la mia domenica pomeriggio all’insegna dell’ilarità e del sano sarcasmo e invece mi ritrovo con un nodo allo stomaco, che dico un nodo, un pugno ben servito che si irradia come una macchia di olio sulla carta scottex. Mi sento strana guardando questa serie, non solo perché le esperienze di Zero le ho vissute tutte, persino l’ultima, la più dolorosa e disarmante, ma perché l’autore Michele Rech era riuscito a dare una forma ai miei sentimenti, ai miei pensieri e persino alle mie maledette paranoie.
Le aveva disegnate come un foglio di carta tratteggiato, da strappare piano piano, fino a dimenticarselo nella tasca dei jeans, chissà nel peggiore dei casi avrebbe rovinato una lavatrice di panni scuri.
Allora ho pensato che il modo in cui mi sono sentita negli ultimi anni e anche adesso non apparteneva solo a me, ma ad un’intera generazione. Come quando Zero si ritrova da lontano ad osservare le vite degli altri, sembrano perfette guardate dalla giusta distanza, ma invece sono macchiate delle stesse paure. Che egocentrismo il nostro, tipico di chi crede di essere al centro dell’universo.
"Sei cintura nera de come se schiva la vita"
— Armadillo a Zero Calcare.
Le relazioni invece?
Un cumulo di parole non dette, aspettative mancate, paranoie incessanti in cui il peggior nemico diventa proprio il nostro giudizio: crediamo di sapere tutto e soprattutto crediamo di capire le intenzioni e i pensieri degli altri, nascosti in un altro meraviglioso cumulo di parole non dette.
Il lavoro? Chi tra i millennials non si è ritrovato mesi e mesi a mandare curriculum, a fare i lavori più disparati in nome della gavetta, neanche fosse una crociata da affrontare per convertire i ribelli? Chi non si è sentito frustrato, sottopagato ed eternamente insoddisfatto?
E poi arriva la realizzazione e il momento in cui puoi farti un posto tutto tuo, una sorta di nido che credi sia l’isola felice e invece la riempi di oggetti inutilizzati, cavi che si intrecciano e prendono vita e ti accontenti di un divano (scomodo) dove poter far andare avanti la tua vita. Dove poterti dimenticare di dover strappare quella maledetta carta seguendo i bordi tratteggiati.
Ma non ti rendi conto di quant'è bello? Che non ti porti il peso del mondo sulle spalle, che sei soltanto un filo d'erba in un prato?
— Sara a Zero Calcare
Ora ho capito questo grande successo, ho capito perché non ho fatto altro che pensare a “Strappare lungo i bordi” in questi giorni.
È un manifesto reale della mia generazione. Una banda di ragazzi (ormai cresciuti e semi adulti) che vive in bilico fra quello che c’era e quello che sarà e che non sente di appartenere ad una strada già scritta, ma al tempo stesso non riesce pienamente a seguirne una propria.
E allora voglio fare mio un pezzo di questa fantastica serie. Siamo come un filo d’erba in mezzo a tanti fili d’erba. Non facciamo la differenza, il mondo non è sulle nostre spalle. Basta farci accarezzare un po’ dal vento, calpestare da qualche piede distratto, riempire di rugiada mattutina.
Lasciarci andare un po’, perché poi che male c’è a scoprire che la vita non era come l’avevamo pensata noi? Che c’è di male nel capire che la vita è molto di più di “strappare lungo i bordi”?
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