La terra trema.
La terra ti inghiotte e ti reclama a se stessa. La natura urla a gran voce, l’uomo si ritira nel silenzio dell’impotenza. Sono nata nel centro Italia e per quanto voglia fuggire il mio cuore torna sempre alle montagne, ai boschi, ai fiumi, ai borghi medievali che la popolano.
Una terra di cui poco si parla, se non nei casi disperati che l’hanno resa nota.
Sono fortunata, perché la mia città, Teramo, è in piedi, solo con qualche ferita qua e là, nei palazzi e nelle chiese. Sono fortunata perché non conosco la situazione da “sfollata”, non ho perso un parente o un amico durante i terremoti che hanno invaso il centro Italia negli ultimi anni.

Ma conosco la paura.
Quella che viene dopo una scossa così forte da sembrare che qualcuno ti abbia infilato in un frullatore gigante e abbia spinto “on” ad una velocità massima.
Conosco la paura dell’Aquila, dove affetti e amici abitavano. La paura di non riuscirli a raggiungere in alcun modo, di non sapere quale fosse stato il loro destino. La paura di dormire la notte nel proprio letto, come diamo per scontato il fatto di rincasare la sera e di sentirci al sicuro nel nostro nido. La paura negli occhi degli altri, di quelli che incontri per strada con i quali vorresti conversare di altro, parlare del più e del meno, parlare del tempo…e invece ti ritrovi a discutere di misure di sicurezza, di come loro hanno affrontato la notte di terrore e di come vogliono passare i giorni successivi.
L’ho vissuto a 17 anni e ora lo vivo ancora a 24, con qualche consapevolezza in più, ma con la stessa paura nell’animo. Quella paura che attanaglia lo stomaco e lo stringe forte, forte. Che ti fa sentire incredula, sgomenta e tanto piccola e sola.
Il mondo dei giornalisti qualunquisti.
L’attenzione mediatica su Amatrice e Accumoli, comuni in provincia di Rieti, è stata invasiva, bombardante. Ricordo anche quella dell’Aquila che aveva avuto lo stesso impatto. Tutti ne parlavano, tutti erano esperti geologi, i giornalisti ipotizzavano soluzioni e innescavano nel pubblico la paura di un’ennesima scossa, le storie che venivano raccontate e subito dimenticate. Perché quando i riflettori si spengono, ci si sente sfollati nella folla, soli nella moltitudine, abbandonati tra le macerie.
L’Aquila ha un centro storico fantasma, solo qualche cane randagio gira tra i massi posizionati ai lati delle strade, tra le transenne rimaste lì a segnare il confine tra ciò che è e ciò che è stato.

Non permettiamo che il silenzio cali su queste terre, che il bombardamento iniziale di notizie e informazioni si spenga non appena debba essere intrapresa la ricostruzione.
Io non dimentico l’Aquila, come non dimenticherò Amatrice e Accumuli. Non dimenticherò l’abbraccio con mia madre e mia sorella, mentre inermi, ci riparavamo sotto l’architrave della porta mentre tutto tremava, mentre i libri e le cornici cadevano da librerie e mensole. Chi non l’ha vissuto è attratto dalle storie,dal contorno che si viene a creare di fronte ad un panorama di distruzione. Ma qui non parliamo di storie inventate, si tratta di realtà nuda e cruda e come tale va trattata.
Distruggere è più facile che ricostruire.
Parlare di una tragedia e cercare la compassione altrui è più facile che parlare di questioni pratiche, politiche e logistiche.
E’ inutile importunare per la fame di notizie chi scava e chi sta lavorando notte e giorno per cercare vite, questo non aiuta.
Non creiamo altri centri fantasmi, non creiamo altri sfollati tra la folla.
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