Ho scelto una vita che mi porta a conoscere parecchie persone, visitare posti, vedere gente. Correre di continuo, raggiungere mete o semplicemente degli ennesimi stop e non mi stanco mai di osservare le persone perché come diceva Charles Bukowski sono il miglior spettacolo che si possa immaginare. Basta scrutare un po’ al di là del proprio naso per scoprire che non serve una sceneggiatura da oscar, basta solo una buona maschera.

E non è un remake del “Fu Mattia Pascal” di Pirandello. È realtà dissacrante. Perché è vero che si incontrano più maschere che persone nel nostro cammino. Ci si imbriglia in un una matassa di preconcetti e frasi fatte, luoghi comuni, ricordi romanzati a puntino per rendere la trama della nostra vita pepata al punto giusto, fino al punto da non capire cosa si nasconde sotto tutto questo. Perché la bruttura delle maschere è proprio questa: ritrovarsi con un fantoccio davanti e non una reale persona.

il giglio e la spina

Quale maschera scegliere?

Si finge per dimostrarci migliori, con uno status sociale diverso dal proprio, con un lavoro e un’esperienza alle spalle che non si posseggono o addirittura per i più creativi si inventa un personaggio cinico e sprezzante, quando in realtà si ha dentro un tenero cuore da buon samaritano.

Quale maschera scegliere? Sicuramente quella che ci proietta verso l’immagine che vorremmo di noi stessi, perché non ci accettiamo così come siamo, perché la paura di mostrarci per quello che si è, è un atto di spaventoso coraggio.

“Basta che lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza!”

Sono un’amante della verità, ho sempre agito con pochi filtri spesso svantaggiando la mia posizione ma sempre portando avanti la mia fierezza. Perché proprio quando volevo definirmi attraverso le mie maschere, una beffarda cinica o una ragazza troppo sensibile o una tutto fare, so tutto io e tu non sai niente, mi è apparsa una parola ben chiara nella mente. Fiera.

Ed è un aggettivo che non mi sarei mai data, neanche per sogno. Perché le mie maschere avevano oscurato questa parte di me.

Poi mi sono ritrovata a parlare con la maschera dell’agnellino, che in realtà era una serpe velenosa, con il romantico cavaliere che farebbe impallidire gli stilnovisti del 1300 – in realtà era un sempliciotto che voleva sfuggire dal suo lavoro modesto per sentirsi diverso, per fare il principe poeta- o con l’intellettuale contorto con il quale parli per una sera intera e ti lascia con il mal di testa il giorno dopo che l’ibuprofene diventa il tuo migliore amico.

Ecco, le maschere sono belle, ci rendono interessanti, illudono gli altri e il nostro ego. Ma a me piacciono gli atti puri, quelli che vengono dalla pancia senza un perché preciso, quelli che mi ricordano che per un attimo siamo noi stessi, senza filtri, con il rischio di farci male.

Sono stati quelli i momenti in cui mi sono sentita viva. E per quanto mi piacciano le maschere altrui o persino le mie, abilmente costruite a seconda di circostanze, situazioni e momenti particolari, mi piace ancor di più quella parola che non avrei mai accostato al mio essere.

Fiera.

Senza maschere, senza filtri, senza vane parole. Non ne servono troppe certe volte, ne basta una per mettersi a nudo.